09 dicembre 2009

Blues di fine anno

Manca poco alla fina di quest'anno.
Un anno che lascia dietro di sè parecchi ricordi, esperienze e ferite. Troppo banale dite?
No, per me non è stato un anno qualsiasi. Ho cambiato radicalmente il mio modo di programmare, il modo di vedere la televisione, ho festeggiato i 40 anni della mia splendida moglie, ho portato per la prima volta mia madre in vacanza e ho visto morire mio padre.

O meglio, questo è quello che ho sperato in quegli interminabili 39 giorni passati da quando vengo svegliato nel cuore della notte in un hotel di Ravenna a quando, finalmente, riesco a vedere mio padre libero da quei tubi che lo tenevano legato a quella che la nostra società chiama vita.

In tutti quei giorni mio padre è stato in coma. Trascinato lontano dalla realtà da un'emorragia celebrale che si traduceva in un racconto pulp ogni volta che i medici cercavano di renderci consapevoli di quello che era successo dentro la sua testa.

In tutti quei giorni ho vissuto in un universo parallelo, paradossale.
Mio padre era diventato una serie di numeri su un display. Un corpo privo di espressioni del quale prendersi cura, massaggiandolo ogni giorno. Massaggi paradossali, privi di contatto, con quei guanti che facevano sudare le mani.
Era diventato un rito: l'attesa davanti ad un acquario dove osservare una serie di corpi più o meno conditi di vita, immergersi in una collettività di spettatori con le loro storie sia drammatiche sia piene di speranza, mascherarsi da chirurgo, entrare nell'acquario e massaggiare braccia, gambe e piedi mentre si osservava il variare di quei numeri sul display e si veniva osservati dagli altri spettatori.
Mio padre era diventato una serie di numeri su una display e un corpo da massaggiare. Anche mia moglie ha massaggiato il corpo di mio padre.

Paradossale. Doloroso. Inutile.

Parlavo a quel corpo, in una flebile speranza di avere la possibilità di poter dire a mio padre tutto quello che un figlio non dice al proprio padre in una vita intera. Ma con la drammatica consapevolezza di aver perso l'occasione di fargli sapere quello che volevo dirgli.

Ognuno di quei trentanove giorni ho salutato mio padre come se fosse l'ultima volta che lo vedevo vivo, sempre se quello stato vegetativo possa essere considerata vita.

Ed il pensiero andava a quell'eroe di Beppino Englaro.
Ognuno di quei trentanove giorni desideravo che quello strazio inutile finisse.
Ma non sono coraggioso come Beppino Englaro e non sono stato capace di combattere per l'eutanasia. Perché non volevo togliere le speranze a mia madre, perché in quel mare di dolore non ho avuto la forza di mettermi contro chi pregava per lui, chi metteva santini o diceva "oggi l'ho visto meglio".
Ma lo sappiamo: in Italia si preferisce soffrire inutilmente piuttosto che affrontare in maniera laica la questione eutanasia.


E dopo un assolo di chitarra si salta dritti alla morale di questo blues: una festa è un'occasione da non perdere per ballare e divertirsi.

2 commenti:

chebruttagente ha detto...

Ti capisco profondamente, purtroppo...quel desiderio di non togliere la speranza a chi continua a pregare vale più del coraggio...
E non potevi trovare un finale migliore, ti abbraccio

utente anonimo ha detto...

Come non comprendere!

Un sorriso

Donatella